Il complesso di San Marcellino e Festo, un tesoro nel cuore di Spaccanapoli
A cura di Sara Ramondino
Il Complesso di San Marcellino e Festo rappresenta uno dei tanti tesori ‘nascosti’ tra i vicoletti del capoluogo partenopeo e che almeno una volta nella vita vale la pena scoprire e visitare per accrescere la conoscenza del proprio patrimonio artistico e culturale.
Questo luogo offre a tutti i visitatori uno scenario unico, divenendo testimonianza dell’incontro tra fede, scienza e ricerca. Una volta varcato, infatti, l’uscio del complesso, si accede direttamente ad un chiostro dove è possibile ammirare numerose specie arboree, fra cui alberi di eucalipto, agrumeti, ficus e piante di agapanto africano. Oltre alla varietà di piante, in questa verde cornice spiccano anche raffinate sculture del periodo barocco e settecentesco, come la “Fontana dei Delfini” che accoglie i visitatori all’entrata del chiostro.
Superata la fontana, di fronte ci si trova sia la chiesa di San Marcellino che il Museo di Paleontologia, quest’ultimo facente parte della sede universitaria del Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e delle Risorse (DISTAR) dell’Università Federico II di Napoli.
L’intero complesso nasce dalla fusione di due monasteri femminili basiliani (VIII secolo) quello dei santi Marcellino e Pietro da un lato e di Festo e Desiderio dall’altro.
Ispirate al culto di San Basilio, le monache che vi risiedevano improntarono la propria vita sulla famosa “regola di San Basilio”, fondata su tre importanti attività: il lavoro manuale, la preghiera e lo studio delle Scritture che era in grado di aprire le menti dei fedeli. Tuttavia, in questi ambienti non erano mancati intrighi e diverse forme di corruzione, dal momento che le suore residenti nei due monasteri vivevano in una condizione di agio e di benessere, tanto da essere viste dal popolo come monache dalla caratura fortemente borghese. Questa condizione portò, inoltre, ad uno sperpero di denaro nel corso del tempo che impoverì sempre più il complesso monastico. Per questa ragione nel 1565 il monastero di San Festo fu soppresso; poi più tardi tornò in funzione e venne accorpato con quello di San Marcellino. Da questo momento in poi si parla del complesso di San Marcellino e Festo.
La struttura di origine medievale negli anni subì una serie di trasformazioni e ristrutturazioni, specialmente in epoca barocca, come la realizzazione tra il 1625 e 1645 della policromatica cupola in maiolica dell’architetto Giovanni Giacomo Di Conforto. La chiesa attualmente è sconsacrata ma viene utilizzata per l’organizzazione di eventi culturali.
Una visita al museo di paleontologia
Con l’arrivo di Gioacchino Murat il complesso perse la sua funzione religiosa e si trasformò in un educandato femminile.
Nel 1932 venne fondato il Museo di Paleontologia, che attualmente si costituisce parte integrante del DISTAR e che ospita una ricca collezione di fossili marini, ittiosauri, uccelli preistorici, mammiferi e palme fossili. Oltre alle teche in cui sono esposti i numerosi esemplari fossili, all’interno della sala del museo è possibile visionare una colorata installazione a forma di spirale affissa al muro, in cui sono raffigurate le diverse ere geologiche con i rispettivi periodi, a partire dall’era Paleozoica (con i periodi Cambriano, Ordoviciano, Siluriano, Devoniano, Carbonifero, Permiano), fino a toccare il Mesozoico (Triassico, Giurassico, Cretaceo), il Cenozoico (Paleogene, Neogene) e poi l’ultima era, ovvero, il Quaternario.
Alcuni esemplari preistorici in mostra
Una volta lasciata la biglietteria – il costo del biglietto per la mostra è di 2,50€ – la visita presso il museo ha inizio con l’esposizione di un calco di un “uccello elefante” dell’Olocene, definito così perché era uno degli uccelli più grandi che fossero mai esistiti. Poteva raggiungere 3 metri d’altezza e arrivare a pesare mezza tonnellata. Le sue uova avevano un volume di circa 160 volte superiore a quello delle galline; inoltre come quest’ultime non erano dei grandi volatori. Andando più avanti nella sala, non è passata inosservata la zanna fossilizzata di un mammuth del Pleistocene, conservata talmente bene da essere irriconoscibile, tanto da sembrare un tronco di legno.
Successivamente è stata la volta del modello del cranio dell’ittiosauro dell’era Mesozoica sospeso al soffitto. Il nome scientifico di questo è “Ophtalmosaurus” e si ispira agli occhi dell’ittiosauro di speciali dimensioni. Infatti gli occhi del grande rettile marino – lungo all’incirca 4 metri e dal peso di una tonnellata – potevano immagazzinare un’enorme quantità di luce da consentirgli di catturare meglio al buio e nelle profondità pesci e calamari giganti.
E che dire dei fossili di trilobiti dell’Ordoviciano (510 – 438 milioni di anni fa) provenienti dal Marocco e perfettamente conservati nella roccia? Il museo ha offerto anche in questo caso una breve panoramica di questi interessanti organismi marini estinti. Vissuti per ben trecento milioni di anni durante l’era Paleozoica, i trilobiti sono chiamati così perché il loro corpo ha un rivestimento in carbonato di calcio chiamato “carapace” e quest’ultimo è suddiviso a sua volta in tre parti. Da un punto di vista longitudinale questa tripartizione ha come nomi specifici: cephalon, thorax e pygidium; dal punto di vista laterale le tre parti hanno come nomi: pleura, rachide e pleura. Questi organismi si distinguevano per l’aver sviluppato un apparato visivo talmente avanzato da consentirgli un’estesa messa a fuoco degli oggetti sia vicini che lontani. Infatti i trilobiti possedevano un paio di occhi caratterizzati a loro volta da un insieme di corpuscoli fotosensibili detti “ommatidi”. Ciascuna ommatide consisteva in una piccola lente convessa che permetteva a questi organismi di mettere fuoco gli oggetti.
Un altro aspetto interessante della mostra è stato vedere come alcuni reperti fossili, conservati nelle teche e risalenti al passato più remoto, vengano accostati ad esemplari attuali, in modo da fare un confronto fra organismi della stessa specie ma di epoche diverse. È il caso dell’Echinoidea attuale -classe a cui appartengono i ricci di mare – rinvenuta in Florida e confrontata con quella del Miocene (15 – 5, 3 milioni di anni fa). Entrambe presentano le medesime caratteristiche senza avere subito grandi mutazioni e trasformazioni, nonostante i milioni di anni che le separano.
Un ulteriore animale preistorico di notevoli dimensioni è rappresentato dal platibelodonte, antenato degli attuali elefanti. Dal cranio esposto rinvenuto in Mongolia e risalente al Miocene (17 – 15 milioni di anni fa) è evidente che questo esemplare discendesse da specie proboscidate. L’aspetto sui generis di questo esemplare è dato dalla presenza di due denti giganteschi, larghi e piatti, all’estremità del muso, che andavano a formare una sorta di “badile” da consentire all’animale di raccogliere grandi quantità di vegetazione nelle aree fangose e negli specchi d’acqua.
“Wolly”, il baby mammuth e l’allosaurus fragilis
La scoperta nel 1977 di una carcassa ben conservata di un baby mammuth lanoso (“Wool mammuth”) ha lasciato grande stupore nella comunità scientifica. “Wolly” è il nome che è stato attribuito al calco del piccolo mammuth di 7-8 mesi esposto all’interno del museo. Stando alla datazione in radiocarbonio, Wolly sarebbe morto 40.000 anni fa ma il suo corpo, essendo stato recuperato dal permafrost in condizioni di basse temperature, è rimasto integro per lungo tempo. Gli organi interni e le dimensioni sono simili a quelli dei comuni elefanti africani, a parte le orecchie di dimensioni più piccole, utili per contrastare la dispersione del calore.
Nonostante ci si possa perdere nella ricca collezione di fossili conservati impeccabilmente nelle teche di vetro della sala espositiva, è impossibile non imbattersi nel gigantesco scheletro dell’Allosaurus Fragilis esposto all’ingresso della sala museale, divenendo il simbolo di questo polo museale napoletano.
Per quale ragione questo animale preistorico cattura immediatamente l’attenzione dei visitatori della mostra? Sicuramente un motivo è legato alle sue straordinarie dimensioni; infatti l’Allosaurus Fragilis arrivava a misurare oltre 9 metri di lunghezza. Era un dinosauro teropode carnivoro, bipede e predatore. I denti erano lunghi e affilati e dallo studio dei fossili risulta che questi cacciasse in branchi proprio per soverchiare anche predatori di taglia superiore alla sua, come i sauropodi. L’Allosaurus è vissuto nel Giurassico superiore (149 – 135 milioni di anni fa) in concomitanza con la nascita degli uccelli. Si ritiene, infatti, che questi fosse un parente stretto dei pennuti a motivo di determinate caratteristiche specifiche. Anzitutto aveva un collo simile a quello degli uccelli, robusto ma estremamente flessibile in modo da consentirgli una buona rapidità di manovra; aveva i femori “sigmoidi” ovvero a forma di “sigma” greca e questo gli garantiva una maggiore resistenza alle sollecitazioni determinate dalla corsa; una caratteristica a livello femorale che è presente, non a caso, in animali specifici come i grandi struzzi. Inoltre aveva cavità nelle ossa e sacchi aerifori, tutte caratteristiche strutturali che si ritrovano nei comuni uccelli. Oltretutto, da recenti scoperte si è giunti alla conclusione che tutti i dinosauri teropodi – fra cui Allosaurus – fossero piumati.
Il concetto di “dinosauro” non del tutto appropriato per i teropodi
Il termine “dinosauro” deriva dall’unione di due parole greche, “deinos” ovvero “terribile” e “sauros”, cioè “rettile”. Fu coniato nel 1815 dal naturalista inglese Richard Owen. Tuttavia come espressione risulterebbe oltre che obsoleta rispetto alle recenti scoperte, anche inappropriata, dal momento che questi teropodi preistorici avevano molte caratteristiche in comune con gli uccelli, piuttosto che con i rettili. Si rifletta anche sul modo di camminare. Oltre ad avere piume, i dinosauri teropodi camminavano sollevati da terra in posizione bipede; ed alcuni di questi mentre si muovevano sugli arti posteriori, si bilanciavano in avanti con la testa e indietro con la coda. Diversamente dai rettili la cui caratteristica precipua della camminata è muoversi con le zampe poste lateralmente al corpo.
Gli uccelli, “eredi” dei dinosauri teropodi
Con la grande estinzione di massa avvenuta alla fine del Cretaceo grazie all’impatto di un asteroide sulla Terra, gli scienziati hanno ricostruito le dinamiche dell’evento e i motivi che hanno portato alla fine dell’esistenza dei dinosauri e di alcune specie di mammiferi e di uccelli. Dagli studi si evince che tutti gli esemplari che si salvarono dal grande impatto meteorico erano caratterizzati da un comune denominatore: la piccola taglia. Le piccole dimensioni, infatti, consentirono a questi animali di potersi riparare in tane costruite all’interno del suolo.
In particolar modo gli uccelli sono stati definiti “eredi dei dinosauri” e più precisamente dei dinosauri teropodi. Infatti furono proprio gli uccelli a superare indenni la grande estinzione grazie non solo alle loro piccole dimensioni ma anche alla capacità di volo. Tuttavia, alla base di questa spiegazione ci sono numerosi studi compiuti sui dinosauri teropodi che hanno attestato la presenza di piume e penne, ossa cave e sacchi aerei nel sistema respiratorio; tutte caratteristiche tipiche degli uccelli attuali. Per questa ragione gli uccelli sono considerati parenti stretti di questa tipologia di dinosauri, anche se il concetto stesso di “dinosauro” sarebbe grossomodo da riscrivere, dal momento che letteralmente questa parola sta a significare “terribile rettile”; in tal caso si parlerebbe di “terribili uccelli” a tutti gli effetti.
C’è da dire, però, che non tutti i teropodi nonostante il piumaggio e le penne fossero adatti al volo. Infatti – per ribadire nuovamente il concetto – solo quelli più grandi e che non volavano vennero distrutti. Questo perché da un punto di vista anatomico gran parte dei teropodi adatti al volo presentavano la penna asimmetrica mentre altri no. Tuttavia, i primi Paraves iniziarono a comparire circa 150 milioni di anni fa, all’inizio del Cretaceo superiore, quando abbondavano le angiosperme e tutte le varietà di piante da fiore e da frutto. Ciò consentì la diversificazione degli insetti che a loro volta venivano catturati dagli uccelli. Uno dei più famosi e antichi uccelli preistorici è l’Archeopterix ed era lungo circa 25 – 30 centimetri, dimensioni simili a quelle di una comune gazza ladra di oggi.
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