Intervista ad Andrea Pietro Ravani, autore di “Racconti dalla casa nel buio”

Intervista ad Andrea Pietro Ravani, autore di “Racconti dalla casa nel buio”
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di Redazione

Andrea Pietro Ravani, autore della raccolta “Racconti dalla casa nel buio” (Giovane Holden Edizioni), ha saputo intrecciare una carriera eclettica che abbraccia la filosofia, la musica e la scrittura. Con un passato ricco di esperienze che vanno dal suonare musica reggae in Togo alla pubblicazione di opere poetiche e narrative, Ravani esplora temi universali come la solitudine, l’identità e la ricerca di senso.

In questa intervista ci addentriamo nel suo percorso personale e creativo, cercando di scoprire cosa lo ispira e come dà forma alle sue opere.

  • Lei ha vissuto esperienze molto diverse nella sua vita, dalla musica reggae in Togo agli studi di filosofia. Come queste esperienze hanno influenzato il suo approccio alla scrittura?

L’esperienza è una ricerca, lo scrivere è formulare delle ipotesi. Possiamo parlare unicamente di ciò che abbiamo vissuto, udito e pensato. Il problema centrale, nello scrivere, è quello di quanto di questo esperire sia comunicabile. Non si tratta in nessun modo di una sorta di autocensura, al contrario, si tratta di generare un metodo per porsi le domande pertinenti nel modo il più veritiero possibile. Porre una domanda postula la relazione tra due soggetti – anche quando dialoghiamo con noi stessi siamo due o più soggetti – e si radica in un’intenzionalità di fiducia. Nell’atto del domandare affido “qualcosa” a “qualcuno”, fiducioso che questi accolga questa offerta con la promessa – la responsabilità – di rispondere. La scrittura è questo, l’atto del domandare fiduciosi che, l’ipotetico lettore, accolga la domanda con la volontà di rispondere, non a me in quanto autore, bensì a “l’Altro”, concetto che non si riduce a quello di “altri”. “L’Altro” si prefigura nella differenza. È tutto ciò che si mostra e si cela, sentiamo e presentiamo, percepiamo e pensiamo come diverso, “altro” per l’appunto, dall’“Io”. 

  • “Racconti dalla casa nel buio” esplora temi profondi come l’alienazione e la solitudine. Da dove nasce la scelta di concentrarsi su questi aspetti della condizione umana?

Nel buddismo, la prima nobile verità enuncia, semplificando, che l’esistenza è sofferenza. L’esperienza nostra è caratterizzata dall’impermanenza, dalla non sostanzialità dei fenomeni e dalla sofferenza. Ciò non significa che non proviamo degli istanti di gioia o serenità, oppure soddisfazione, ma questi sono sempre effimeri e ambigui. L’illusione, il desiderio e la volontà, di trattenere le cose e le persone, di comprendere l’esistenza, la realtà tutta una volta per tutte, di rifuggire il dolore e la sofferenza, comportano esattamente sofferenza. Inoltre, noi esseri umani abbiamo la tendenza a percepirci come se fossimo costituiti da due nature differenti, una fisica e l’altra spirituale, e talvolta a percepire allo stesso modo la Natura. Si deve considerare che anche in una prospettiva di riduzionismo ontologico, questa ambiguità non è risolta. Infatti, essendo il riduzionismo ontologico un assunto euristico, esso appartiene al dominio la cui esistenza vorrebbe negare. Tutto ciò che possiamo definire in maniera generica come cultura, dalla più concreta e quotidiana, per esempio dal come e cosa si mangia, alle forme più astratte, come per l’appunto la filosofia, la letteratura, ecc… è un prodotto delle mente umana, dunque qualcosa di immateriale e qualcosa che prima di essere pensato non esisteva.  È questa la peculiarità dell’animale appartenente al genere homo quale noi siamo; la capacità di immaginare qualcosa che in natura non esiste, qualcosa che non è percepibile con gli organi di senso ma è concepibile dalla mente, e di conseguenza, comportarsi, percepire e pensare come se questo esistesse in maniera assoluta, in contrapposizione a ciò che è il dominio del sensibile, il quale esisterebbe secondo modalità meno stabili e conoscibili.

In altri termini, qualunque sia l’approccio teorico, ci percepiamo come se esistessimo in un luogo tra cielo e terra, mente e cervello, anima e corpo, spirito e materia. Tutta la realtà e l’esperienza è vissuta in questa ambivalenza, sia ontologica che temporale. Siamo lacerati. Nulla è conoscibile in maniera compiuta, e nulla permane e dunque mai compiutamente “è”, ma noi necessitiamo di questo “è”. L’alienazione e il sentimento di solitudine hanno origine da questa percezione.

  • Il titolo della raccolta è suggestivo e carico di simbolismo. Come è nato? Quale significato personale o artistico rappresenta per lei?

Il titolo della raccolta ripete in un qualche modo il processo descritto sopra. Nasce da una percezione, pertanto da un’ipotesi formata da una crasi di ragione e sentimento. Abitavo un tempo, in un appartamento in un villaggio. Dalla finestra della stanza da letto, scorgevo la notte una casa abbandonata, solo parzialmente illuminata da un lampione antiquato. Era un’immagine che suscitava in me un sentimento oscuro, indefinito. Una percezione non è mai una semplice somma di dati, o informazione la cui manifestazione è definita da un fenomeno elettro-chimico. Quando, anni dopo, dovetti decidere quale titolo proporre per questa raccolta di racconti, quell’immagine si impose in maniera indubitabile. “Racconti dalla casa nel buio” è la semplice frase che accompagna quella visione. Ovviamente essa riecheggia di tutta una serie di pensieri e sentimenti. Freud dice che “l’Io non è padrone in casa propria” inserendo questa affermazione nel discorso più ampio riguardante “le grandi mortificazioni che la scienza” – la teoria copernicana, la teoria dell’evoluzione e la teoria psicoanalitica -avrebbe apportato “all’ingenuo amore di sé” che l’essere umano proverebbe per se stesso.  Io oso suggerire che si possa andare anche oltre, ovverossia che sia l’Io che la casa, non siano ciò che pensiamo e percepiamo e che di fatto non esistano in quanto tali. L’ombra, dunque il buio, appartiene all’ambito semantico dell’“Altro”; non sono concetti analoghi, ma sono generati da dinamiche simili.  Dinamiche costitutive della nostra esperienza, che cerco di descrivere in questi racconti.

  • Nel racconto “Il meccanico”, il lavoro manuale viene descritto con una lente quasi filosofica. Qual è il suo rapporto con il lavoro fisico o artigianale?

Come già osservato, una peculiarità dell’essere umano è quella di immaginare delle cose che non esistono e di far si che queste divengano parte dell’esperienza umana in maniera fattiva, a ciò va ricondotto il fatto che l’homo sapiens è l’unico animale in grado di fabbricare degli strumenti per costruire altri oggetti. Curiosità, creatività, spirito di scoperta, animano il nostro essere nel mondo. “Con la testa e con la mano lavora l’artigiano”. Ricordo questa insegna davanti a una bottega. Quando ero bambino, ogni volta che ci passavo davanti, leggevo quella scritta con impegno e attenzione. Provo una grande ammirazione per gli artigiani di qualsiasi ambito; io il lavoro con le mani non lo so fare. Ciò che è essenziale nell’artigianato è l’unicità dell’opera e questa è legata all’unicità dell’artefice. È come nel mondo della Vita! Ammettiamo che l’umanità sia una sorta di Superorganismo, oppure che le nostre caratteristiche individuali siano la risultante di un processo genetico al quale noi sottostiamo impotenti, tutto questo sembrerebbe annullare l’importanza, in quanto unicità e irripetibilità, di ogni esistenza individuale. Di fatto, credo valga il contrario. Il processo evolutivo, anche a livello macro e non solo micro, è ininterrottamente generato, fra i vari fattori, dalle piccole variazioni individuali, e queste non si situano unicamente a livello genetico, bensì anche a livello comportamentale e mentale. Ci si può legittimamente chiedere quali siano le conseguenze sull’ambiente e dunque su tutti gli individui che generano, che sono, che abitano questo ambiente, del nostro più piccolo gesto e del nostro più fugace atto mentale. Come io penso l’“Altro”, l’“Altro” è, e questo suo essere mi genera a sua volta.

  • Lei ha pubblicato poesie e racconti nel corso della sua carriera. Come cambia il suo processo creativo quando scrive in questi due generi?

La poesia giunge da lontano. È uno stato d’animo che lentamente prende forma in una rappresentazione mentale, può essere un’immagine o un verso, dunque dei suoni, tutto il resto è lavoro. È necessario tenere vivo il sentimento originante e questa è la cosa più difficile. Non posso decidere di scrivere una poesia, è la poesia che si impone. Spesso si annuncia qualche giorno prima con un sentimento vago, quanto profondo, di inquietudine.  Lo sbaglio che purtroppo commetto spesso è quello di voler capire. La poesia si dovrebbe unicamente sentire e mai spiegare. Per quanto riguarda la narrativa, il principio potrebbe apparire simile, si manifesta con un’immagine. I racconti si sviluppano a partire da una scena che con l’occhio della mente osservo senza sapere, di primo acchito, da dove essa provenga. In seguito, il lavoro è, o dovrebbe essere, di natura differente da quello della poesia. L’analisi, lo sforzo di comprendere e lo sviluppo di un discorso dialettico, sono costitutivi dell’intenzionalità del narrare. Nel verbo narrāre (lat.), seguendo delle tracce nel suo sviluppo etimologico, si ritrova il significato di “accorgersi, cominciare a conoscere, apprendere” da noscĕre (lat.). La narrativa è dunque un metodo gnoseologico. La verità è “svelamento” (c.f.: ἀλήθεια (gr.)), quindi a mio parere è un metodo, una pratica, un’attività sia mentale che comportamentale, più che una realtà o un concetto da scoprire e una volta definito, da preservare, proteggere da ciò che percepiamo a essa avverso. È un processo senza fine poiché ciò a cui tende non è il possesso, bensì anela a un certo “modo d’essere”, che in quanto tale è dinamico e mai statico. La verità è il metodo e il metodo costituisce l’oggetto percepito, osservato, compreso. La narrativa è ricerca dialettica, la poesia dovrebbe essere intuizione di ciò che è arazionale.  

  • La filosofia è un elemento centrale del suo percorso accademico e personale. Quanto quest’aspetto influisce sul suo modo di raccontare storie? Che cosa rappresenta oggi la filosofia?

Si può considerare la filosofia un genere letterario, una narrazione nel significato espresso in precedenza. L’essere umano o guarda a se stesso o guarda le stelle. La filosofia, come la letteratura e l’arte in genere; le religioni; la scienza; la storiografia; la psicologia; eccetera, sono delle narrazioni, uno sforzo, un anelito, un conato alla conoscenza. Le domande fondamentali, io credo, siano già state poste, ripetutamente, nel corso della storia dell’umanità. Proverei a riformularne una, in un linguaggio comune e generico: come posso preservare la mia esistenza e quella degli altri individui dai quali la mia esistenza dipende come la loro dipende dalla mia?  Non so se questa sia la domanda originante di tutte le altre, in una prospettiva empirista, credo possa essere considerata tale. Immanuel Kant riassumeva gli interessi della ragione, in tre domande fondamentali: “Cosa posso sapere? che cosa devo fare? e che cosa ho diritto di sperare?”, trova sia un’ammirevole sintesi. D’altro canto, ci dobbiamo porre una domanda: alludendo ad Aristotele, mi chiedo perché non possa essere la meraviglia, e non una più pragmatica lotta per la sopravvivenza, il primo movente, l’intenzionalità prima, la motivazione di base, ad aver mosso l’essere umano verso la conoscenza.

La filosofia, oggi, credo rappresenti ciò che ha sempre rappresentato. Non bisogna confondere la fama, l’apparire, il credito che l’opinione pubblica della maggioranza attribuisce a qualcosa, a qualcuno o a una pratica, con la validità, la necessità e la profondità della stessa. È evidente che ai giorni nostri – si guardi alla scuola! – la filosofia gode di poco credito. Non forma individui produttori di ricchezza altrui, o zelanti esecutori di ordini, e nemmeno individui funzionali al mantenimento del sistema politico-economico-sociale; per lo meno non lo fa necessariamente. La filosofia come l’arte, hanno lo statuto dell’imprevedibilità: non si può sapere a cosa possano condurre, quale possa essere la loro influenza sui pensieri e sulle azioni degli individui umani. Questo aspetto potenzialmente rivoluzionario o per lo meno critico e destabilizzante, la filosofia lo ha sempre avuto.

  • Come nasce un racconto per lei? Parte da un’immagine, da un’idea filosofica o da un’esperienza personale? Vuole raccontarci qualcosa di più del processo creativo che ha preceduto la scrittura dei racconti?

In parte ho già accennato a questo aspetto. Non vi è una regola assoluta. Io penso per immagini e dunque, spesso il racconto prende le mosse dalla descrizione di un’immagine, non è detto che, in seguito, questa corrisponda all’incipit del racconto. Se si ritiene che già le percezioni sensibili che noi proviamo, sono un’ipotesi che il cervello costituisse sull’ambiente nel quale il corpo si trova in un dato istante, pensare che un’immagine mentale non sia costituita e portatrice di un’infinita rete di connessioni tra; percezione, memoria, intenzionalità; sarebbe un imperdonabile leggerezza. Vi sono alcuni racconti che prendono lo spunto da esperienze vissute, altri sono di pura fantasia, ma i due aspetti si fondono inesorabilmente nello svolgersi della narrazione. La costante è sempre l’aspetto del “domandare” e quindi del tentativo di trovare il metodo, in questo caso letterario, migliore per esprimere l’esigenza di una costante ricerca di senso.

  • Molti dei suoi personaggi sembrano alle prese con l’incomprensione della realtà. Si ritrova in loro o sono il frutto di una riflessione più distaccata?

Ritengo che questa sia la comune condizione umana. Ciò che può mutare è l’atteggiamento che assumiamo di fronte alla nostra ignoranza. Se parlo di ignoranza, non intendo la scarsità o assenza istruzione, non intendo possesso o meno di nozioni, cultura, sapere specialistico, capacità tecniche o scarsità di competenze in questo ambito, intendo esperienza della vera natura di ciò che denominiamo genericamente con il concetto di realtà. I fenomeni che esperiamo nell’esistenza, questa è la realtà. Noi stessi siamo uno di questi fenomeni. Si può essere più o meno consapevoli di questa nostra ignoranza e a essa possiamo reagire in disparati modi; ovverosia, con differenti approcci mentali e quindi differenti comportamenti. Tuttavia, ciò che più conta è il disagio esistenziale, la sofferenza, il disorientamento che tutti noi, salvo forse rarissime eccezioni, proviamo. Ogni tanto mi dico: se ciò che succede nel mondo e ciò che facciamo noi umani, non fosse spesso atroce e orribile, l’esistenza potrebbe essere presa per una grottesca parodia. Una parodia di cosa? dei nostri più nobili ideali.

  • Come lettore, quali autori o opere hanno maggiormente influenzato il suo stile e la sua visione del mondo?

La lista potrebbe e dovrebbe essere lunga. Per non cadere in imperdonabili dimenticanze, “farò” un solo nome: Jorge Luis Borges e un solo titolo: “Di fronte all’estremo” di Tzvetan Todorov.

  •  C’è un messaggio o un tema specifico che spera i lettori portino con sé dopo aver letto “Racconti dalla casa nel buio”?

“…siate di voi stessi una luce…” (cit. Samyutta Nikaya 22:43 Attadipa Sutta; Suttapiṭaka; Tipiṭaka, Canone pāli; l’insegnamento del Buddha.)

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