La linea curva, la sfida di Roberto Strati: il teatro che fa vedere senza mostrare
Venerdì 28 Aprile alle ore 21:00, la seconda data de “La linea curva” presso la Star Project 2.0 sotto l’egida dell’associazione culturale ‘A Chiorma
C’è una casa senza la porta ed io vivo lì/di notte fa così freddo e le giornate sono/difficili da sopportare là dentro/ C’è una casa senza, soffitto, così la pioggia/ ci scende dentro/ cadendo sulla mia testa mentre io tento di/pensare/ Io non ti conosco, tu non conosci me può/essere così/ci sono tante cose su cui sono incerto…/
Paolo Del Colle
Tutto inizia con una giacca lanciata sul palco, vola leggera disegnando una linea curva nell’aria. Attratta dalla tirannica forza di gravità, cade a terra. Nessun rumore accompagna il sudario inerte, se non l’incessante scrosciare di una pioggia, rumore di sfondo per tutto lo spettacolo.
La semplicità di questo gesto possiede una straordinaria energia simbolica. Strati vuole dire che il teatro non ha bisogno di effetti speciali, di ridondanza, di esagerazioni. Il simbolo travalica le barriere. In questa prospettiva un oggetto diventa vivo, anzi vitale. Lo stesso discorso può valere per la parola, che risulta la protagonista indiscussa de “La linea curva”, un adattamento inedito di Roberto Strati, omaggio al grande drammaturgo francese Koltès. La solitudine dei campi di cotone nella visione di Strati è un ritorno al teatro di parola, alla forza suggestiva della parola, tangibile, feroce, inarrestabile, che grazie all’interpretazione di Umberto Squitieri si trasforma in corpo e sangue.
Nell’ora che volge al crepuscolo due figure “liminali” si incontrano in un luogo indefinibile, una casa non casa. Un pretesto enigmatico per un inizio che crea spaesamento, perché si viene attratti da una forza che è continua allusione. Ne risulta una messa a fuoco difficile, amplificata dalla dimensione onirica e surreale, quasi metastorica. E senza rifletterci lo spettatore si trova a condividere lo stato d’animo del personaggio /attore “Il Cliente”, interpretato da Umberto Squitieri, rapito, fascinato, bloccato da una voce fuori campo, dall’attore in assenza (Strati).
foto di Luigi Vaccaro
Sinuosa, melliflua, incantatrice, la voce seduce continuamente, parla alle nostre fragilità, promette e suscita il desiderio all’uomo mai sazio di menzogne. Attrae e repelle nascosta dietro un paravento, dove l’aura dell’incanto si potenzia. Inafferrabile ossessione per chi l’ascolta è una predatrice nascosta. E’ il “Venditore”. Ma chi rappresenta? O meglio cosa rappresenta? Secondo Strati” ci troviamo di fronte a due personaggi, non persone, due topoi: il topos dell’uomo bagnato, il cliente, in una casa non casa, accolto da una voce avvolgente, il topos del venditore, voce interiore, esteriore, che apre la dimensione dei desideri inconsci.”. L’idea del regista nasce dal desiderio di portare sulla scena napoletana la grande riflessione sulla solitudine del drammaturgo francese in un’epoca di iperconessione tritatutto, dove la giostra perpetua delle connessioni tecnologiche crea una solitudine ancora più fagocitante perché si cela sotto il mantello di una socialità apparente.
Strati sottolinea che “la dimensione e l’utilizzo delle parole è fondante, affascinante. Un teatro di parole, anzi un ritorno al teatro di parola può essere una grande sfida, e questo è uno dei motivi per il mio taglio e l’alterazione di una voce fuori campo.” È una sfida che “La linea curva” vince, perché riesce a rappresentare la profonda solitudine umana senza mai nominarla, senza mostrarla apertamente, perché una spirale labirintica di parole assume via via la forma di un corpo mostruoso e l’odore di ruggine e bagnato entra fino alle ossa dello spettatore e si fa sangue, ferita aperta, dolore intimo. Grazie alla regia priva di retorica e calibrata di Roberto Strati, all’interpretazione sobria e potente di Umberto Squitieri, alla musica di Rosario Rey Penza che concilia il parlato alla linea melodica ed emozionale, si viene trascinati in un orizzonte che procede per gemmazione, che apre nuovi percorsi, senza forzare al significato univoco, ma con l’intenzione di lasciare la libertà di porsi domande nuove e nuove riflessioni di senso.
di Daniela Marra
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